di Alessandra Pastore
La nascita di un bambino può scatenare emozioni contrastanti, da una parte eccitazione, gioia e dall’altra paura, ansia.
Lo stereotipo sociale nasconde le emozioni negative, proponendo l’immagine di una madre serena, felice, pronta a immedesimarsi nel nuovo ruolo.
Nell’immaginario collettivo un disturbo dell’umore dopo il parto rappresenta una debolezza, un difetto, un tabù.
Ci si aspetta che una mamma sia impeccabile e abbia le risposte a tutto, spinta da un istinto materno, ovvero una tendenza innata che le partorienti avrebbero nel prendersi cura della prole.
La maternità comporta comunque una quota di stress dovuta a un cambiamento radicale della propria vita, un adattamento progressivo al nuovo ruolo e una modificazione dei ruoli precedenti.
Nel Periodo post partum circa l’85% delle donne manifesta un qualche tipo di disturbo dell’umore.
Per la maggior parte i sintomi sono lievi, di breve durata e si risolvono spontaneamente.
Si tratta di stime molto approssimative dal momento che i sintomi vengono sottovalutati dalle pazienti e dai clinici e solo in circa la metà dei casi viene riconosciuto il disturbo.
Il DSM 5 (2013) considera la DPP come un disturbo depressivo maggiore se l’esordio dei sintomi dell’umore si verifica durante la gravidanza o nelle quattro settimane successive il parto.
Sintomi
- Senso di vuoto, tristezza, disperazione;
- Diminuzione di interessi per tutte o quasi tutte le attività;
- Irritabilità;
- Difficoltà a relazionarsi col nuovo bambino;
- Perdita o aumento di peso oppure diminuzione o aumento dell’appetito;
- Insonnia o ipersonnia;
- Grave ansia o attacchi di panico;
- Faticabilità o mancanza di energia;
- Sentimenti di autosvalutazione, colpa, inadeguatezza;
- Agitazione o rallentamento psicomotorio;
- Ridotta capacità di pensare o concentrarsi;
- Pensieri ricorrenti di far del male a sé stesso o al bambino;
- Pensieri ricorrenti di morte.
La Depressione Post Partum deve essere distinta dal “baby blues” (la parola blues fa riferimento a uno stato di malinconia), che è una sensazione di tristezza e include: sbalzi d’umore, crisi di pianto, ansia e difficoltà a dormire.
Il baby blues in genere inizia entro i primi due o tre giorni dopo il parto e non dura mai più di due settimane.
È dovuto principalmente ai cambiamenti ormonali e alla stanchezza, ma i sintomi della depressione hanno una gravità e una durata maggiore.
La DPP deve essere anche distinta dalla psicosi post partum, o psicosi puerperale, ben più grave della depressione e anche molto più rara.
In questo caso la neo mamma perde il contatto con la realtà, presenta deliri, allucinazioni, vissuti persecutori, eloquio e comportamento disorganizzato.
L’infanticidio è più spesso associato agli episodi psicotici post partum caratterizzati da allucinazioni che ordinano di uccidere il neonato oppure da deliri di possessione demoniaca del neonato, ma si può verificare anche durante gravi episodi di alterazione dell’umore post partum privi di deliri o allucinazioni.
Il rischio di DPP con alterazioni psicotiche risulta particolarmente aumentato per donne con precedenti episodi di alterazione dell’umore post partum, ma è elevato anche per le donne con una precedente storia di un disturbo depressivo o bipolare e quelle con una storia familiare di disturbi bipolari.
Una volta presentato un episodio post partum con caratteristiche psicotiche, il rischio di ricaduta per ogni successivo parto è tra il 30 e il 50% (DSM 5, APA, 2013).
Quali sono le cause e i fattori di rischio?
È difficile attribuire un’unica causa alla DPP.
Si ritiene possa essere multifattoriale.
Le potenziali cause possono essere biologiche, genetiche e psico-sociali, inoltre ci sono dei fattori di rischio che possono rendere maggiormente suscettibile il suo sviluppo.
Di seguito le possibili cause e/o fattori di rischio:
- Cambiamenti ormonali
La diminuzione dei livelli di estrogeni e progesterone subito dopo il parto determina un’alterazione degli stati d’animo con una marcata irritabilità e destabilizzazione emotiva; - Cambiamenti nella regolazione di alcune sostanze quali la serotonina e la noradrenalina
Quando diminuisce la noradrenalina, diminuisce anche la voglia di fare, mentre quando diminuisce la serotonina peggiora la qualità del sonno e aumentano le tendenze ossessive; - Familiarità con la depressione o altri disturbi dell’umore
Coloro che hanno lottato con disturbi dell’umore come depressione, ansia o disturbo bipolare, hanno dal 30% al 35% in più di probabilità di affrontare la DPP nel corso della loro vita.
Anche le donne che hanno sperimentato la DPP in parti precedenti hanno molte più probabilità di sperimentarla nuovamente (Faisal-Cury, et al., 2004); - Aver vissuto eventi stressanti nell’ultimo anno
Come complicazioni durante la gravidanza, malattia o perdita di lavoro; - Problemi di salute o altre esigenze speciali del bambino (Nakku, 2006; Patel, 2002);
- Gravidanza non pianificata o indesiderata;
- Basso sostegno sociale;
- Fattori socioeconomici
Lo svantaggio socioeconomico è stato associato a un aumento del rischio di DPP (Aderibigbe, et al., 1992; Agoub, et al., 2005; Chandran, et al. 2002); - Qualità della relazione col partner
Sono stati osservati tassi più elevati di DPP in relazioni in cui il partner ha rifiutato la paternità o era poco coinvolto, litigioso, violento o che faceva uso di alcool (Abiodun, et al. 1993; Gausia, et al., 2009); - Età materna
In uno studio canadese, i ricercatori hanno scoperto che le donne sui 20 anni e le donne sui 40 anni possono avere un aumento del rischio di sviluppare depressione postpartum (Simone, et al., 2013); - Fattori genetici
Sono state scoperte specifiche alterazioni chimiche in due geni che, se presenti durante la gravidanza, possono prevedere se una donna svilupperà DPP.
I geni in questione sono TTC9B e HP1BP3, e di loro si sa che sono importanti per l’ipotalamo, il centro neurale che regola l’umore (Guintivano, 2014).
Depressione post partum paterna
Tradizionalmente la ricerca e il trattamento per la DPP si è concentrata sulle mamme.
Soltanto nell’ultimo decennio è stata prestata maggiore attenzione anche a quella paterna.
La Paternal Postpartum Depression è ancora più sottostimata di quella materna.
La letteratura attuale non rivela una definizione specifica di DPP paterna.
Anche gli uomini possono:
- Sentirsi tristi o affaticati, sopraffatti,
- Provare ansia
- Avere dei cambiamenti nella routine del sonno,
- Perdita o aumento dell’appetito
- Provare gli stessi sintomi della madre.
L’incidenza della DPP paterna in letteratura varia notevolmente, si va dal 4 al 25% dei nuovi padri nei primi 12 mesi dal parto (Goodman, 2004; Paulson, et al. 2006).
La DPP paterna può influire negativamente sulla cura e sul legame col bambino, può essere un fattore stressante per l’intero nucleo familiare e può essere collegata alla psicopatologia infantile, come disturbi della condotta, disturbi emotivi, iperattività, ansia e depressione, nonché anche a ritardi linguistici (Paulson, & Bazemore, 2010; Ramchandani, et al., 2008).
La mancanza di sostegno sociale è stata riconosciuta come un fattore di rischio per la DPP materna.
Questa mancanza di sostegno può anche svolgere un ruolo importante nello sviluppo della DPP paterna (Musser, et al., 2013).
Altri fattori di rischio possono essere:
- Giovane età
- Problemi col partner
- Familiarità con disturbi dell’umore
- Problemi economici.
Conseguenze nel bambino
La DPP non ha conseguenze negative solo sulla nella madre o sul padre, ma anche sul bambino.
Innanzitutto, tra la madre e il bambino si instaura un legame di attaccamento. La figura materna è la base sicura da cui il bambino parte per esplorare l’ambiente.
Sulla base di questo legame significativo, il bambino sviluppa uno stile di attaccamento (Bowlby, 1989), che può essere di tipo:
- sicuro
- insicuro-evitante
- insicuro-ambivalente
- disorganizzato.
Un attaccamento sicuro porterà la madre e il bambino a essere in sincronia, a riconoscersi e a rispondere reciprocamente ai rispettivi segnali.
Quando invece ci si trova a contatto con una madre affetta da DPP, la madre non riesce a entrare in sintonia con il bambino, non risponde correttamente alle sue esigenze, quindi si avrà un bambino con un attaccamento insicuro, con maggiore rischio di avere più difficoltà o ritardi nello sviluppo (McMahon, 2006).
Inoltre, i figli di madri che hanno DPP non trattata hanno maggiori probabilità di sviluppare deficit cognitivi, problemi comportamentali, emotivi, sociali, disturbi psichiatrici e medici nell’adolescenza (Pearlstein, et al., 2009; Misri, et al. 2006).
Studi hanno osservato anche una correlazione diretta tra DPP e ritardo nello sviluppo del linguaggio (Kaplan, 2012; Quevedo, 2012). Altri studi hanno dimostrato, invece, un effetto indiretto sullo sviluppo del linguaggio; in particolare, uno studio (Stein, et al., 2008) ha mostrato che la sintomatologia depressiva materna nell’anno postnatale era indirettamente associata a inferiori abilità linguistiche del bambino a 36 mesi.
È stato dimostrato anche che i neonati di madri depresse ottenevano punteggi significativamente più bassi circa l’abilità di regolare la paura (Feldman, 2009), mostravano disregolazione emotiva (Kalita, 2009) e maggiore ansia (Walker, et al., 2013).
Infine, studi hanno dimostrato un aumento di comportamenti-problema in bambini all’età di 2 anni (Avan, et al., 2010) e un temperamento difficile nei neonati (Hanington, et al., 2010).
Prevenzione e trattamento
È fondamentale che le donne che soffrono di DPP capiscano che non è il risultato di qualcosa che hanno fatto o non hanno fatto e che non si devono sentire in colpa.
Le madri devono sentirsi libere di esprimere apertamente i propri sentimenti, seppur negativi.
Nella maggior parte dei casi la donna stessa ha vergogna per i sentimenti che prova e non ne parla facilmente, anche perché è la prima a giudicare sé stessa in termini negativi e i suoi pensieri sono di tipo catastrofico.
D’altro canto, la DPP contrasta con l’immagine collettiva idealizzata di mamma.
Nella realtà, di fronte a degli eventi di cronaca, le madri vengono spesso etichettate come “pazze”, “incapaci” e “snaturate”.
Le madri “cattive” sono personaggi immancabili nelle fiabe.
Nelle versioni moderne delle fiabe vengono rinominate “matrigne”, ma nella forma originale della fiaba erano madri che da buone diventavano cattive.
Della mamma cattiva quasi nessuno vuol sentir parlare, perché nell’immaginario collettivo la madre è colei che si sacrifica ed è felice di sacrificarsi.
Se sono presenti i sintomi di cui sopra e se vi è familiarità con i disturbi dell’umore o sono presenti altri fattori di rischio occorre rivolgersi a uno specialista.
Alcune persone con depressione potrebbero non riconoscere i sintomi; in questo caso è importante che i familiari o gli amici prestino aiuto nel caso in cui dovessero osservare tali segnali, e non sperare in un miglioramento, soprattutto se tali sintomi si protraggono nel tempo (superano le due settimane).
Grazie a una terapia adeguata è possibile avere una riduzione della sintomatologia depressiva, anche in tempi brevi.
Ciò avrà dei benefici non solo sulla madre, ma anche sulla prole e su tutto il nucleo familiare.
A volte la depressione lieve può essere gestita con gruppi di supporto, consulenze o altre terapie. In altri casi possono essere raccomandati antidepressivi, anche durante la gravidanza (Mayo Clinic, 2018).
Gli antidepressivi agiscono direttamente sul cervello alterando le sostanze chimiche (i neurotrasmettitori).
Alcuni di essi, come la serotonina e la noradrenalina possono migliorare l’umore, ma occorre aspettare alcune settimane prima di notare degli effetti su di esso.
La scelta della terapia medica va concordata con il medico neuropsichiatra che selezionerà la tipologia di farmaco in base alla fase di vita della diade madre-bambino (gravidanza o allattamento). I trattamenti psicologici evidence-based includono la terapia cognitivo-comportamentale (Gloaguen, et al., 1998), la psicoterapia interpersonale (Churchill, et al. 2001) e la Problem-Solving Therapy (Cuijpers, et al., 2007).
Infine, la farmacoterapia combinata ad una psicoterapia risulta ancora più efficace del solo trattamento psicologico (Cuijpers, et al., 2009) o farmacologico.
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