12 Giu 2025

Adolescence e l’urgenza emotiva del nostro tempo

di Marzia Casilli


Adolescence è la serie più potente del 2025.

Potrei chiudere qui la recensione.

Ma sarebbe ingiusto, perché ogni secondo di questa miniserie inglese targata Netflix merita di essere scomposto, osservato, compreso, e soprattutto sentito.

Perché è questo che fa Adolescence: ti prende a pugni in faccia e poi ti obbliga a restare lì, fermo, a sentire ogni dolore, ogni colpo, ogni silenzio.

È durissima da guardare, impossibile da ignorare.
Quattro episodi, ognuno lungo un’ora, girati tutti in un unico, folle, visionario piano sequenza.

La terza puntata è, senza mezzi termini, un capolavoro assoluto della narrazione contemporanea. Una vetta di tensione emotiva e drammaturgica mai raggiunta prima. Non è solo un episodio: è un’esperienza sensoriale, emotiva, psicologica. Una sfida lanciata direttamente allo spettatore.

La premessa della serie sembra già leggenda: cosa succederebbe se un ragazzo come Jamie, il protagonista, un tredicenne normale, bravo a scuola, senza mai un problema, venisse accusato di un femminicidio?
La domanda è già di per sé un terremoto. Ma ciò che Adolescence riesce a fare e lo fa in modo devastante è non fermarsi al crimine, al giallo, all’inchiesta. Va molto più a fondo. Si insinua nel buio. Ci obbliga a guardarci dentro.

Quello che fa Adolescence è raccontare l’adolescenza come zona di guerra interiore.

Ogni episodio è un viaggio nei territori inesplorati della mente adolescenziale.
L’età dello sviluppo non viene qui romanticizzata né demonizzata, ma mostrata per ciò che è: un terreno instabile, mutevole, attraversato da pulsioni che spesso i ragazzi non sanno nominare, tanto meno gestire.

Adolescence racconta l’adolescenza come il momento in cui tutto può prendere forma o andare in frantumi.

Adolescence è un racconto incredibilmente reale di cosa significhi essere giovani oggi. E ci mostra e dimostra come essere giovani oggi equivalga quasi a una condanna. Ci svela quanto sia faticoso e doloroso farsi strada tra sessismo, misoginia, bullismo e sottocultura incel.

Chi sono gli incel?

Il termine incel è l’abbreviazione di involuntary celibate, cioè celibe involontario. Si riferisce a persone, in prevalenza uomini eterosessuali, che dichiarano di non riuscire ad avere relazioni sentimentali o sessuali pur desiderandole. La parola nasce in ambito neutro alla fine degli anni ’90, ma nel tempo si è evoluta e oggi è spesso associata a comunità online tossiche e misogine.

Gli incel sono, attualmente, una sottocultura di uomini, che si ritrova principalmente online, e che si identifica con la propria percepita incapacità di avere relazioni sessuali o romantiche. La comunità degli incel opera quasi esclusivamente sulla rete, e si ritrova all’interno di spazi che forniscono un contenimento per sfoghi, frustrazione e biasimo nei confronti della società, ritenuta colpevole di non essere stata in grado di aiutarli né, spesso, di includerli.

La serie è anche un trattato di psicologia dello sviluppo, narrato in immagini e silenzi più che in parole. Ogni sguardo del protagonista, lo straordinario e giovanissimo Owen Copeer, capace di portare sulla pelle il peso dell’ambiguità, racconta la fatica di crescere in un mondo privo di bussola affettiva.

L’assenza di un linguaggio emotivo condiviso diventa uno degli snodi centrali: i ragazzi non sanno parlare, non sanno chiedere aiuto, non sanno nemmeno riconoscere il male quando comincia a insinuarsi.

E gli adulti, sono capaci, di parlare con loro?

“Era al sicuro nella sua camera” dice la madre di Jamie in una scena. Era al sicuro. Lo era davvero? Cosa faceva nella sua camera? Lo sappiamo veramente a cosa pensano? Cosa fanno? Cosa gli è accaduto durante la giornata?

Se stanno bene o se sono felici, lo sappiamo?

La costruzione dell’identità maschile: tra modelli tossici e silenzi colpevoli

Uno degli elementi più disturbanti e illuminanti della serie è il modo in cui viene decostruita la figura del maschio normale.
Il protagonista non è un mostro. E forse è proprio questo che fa più paura.

È uno dei tanti. Un ragazzo che riceve, più o meno inconsciamente, messaggi continui su cosa significhi essere uomo: desiderare, possedere, dominare.

Adolescence mostra senza sconti come la misoginia non sia un’eccezione, ma un’eredità culturale. Non è solo un seme che può germogliare, ma un acido che corrode tutto, a partire dalle relazioni. Dai gesti. Dalle parole.

Un acido che si trasmette di generazione in generazione, spesso sotto forma di silenzi: padri che non parlano, madri che proteggono troppo o troppo poco, insegnanti che guardano altrove.

La serie diventa allora una feroce accusa all’adultità: non come entità cattiva o colpevole, ma come sistema inadeguato, disconnesso, incapace di riconoscere i segnali.

È nel vuoto del dialogo tra generazioni che si insinuano le ombre.

C’è una scena in cui il silenzio tra un padre, un immenso Stephen Graham, e un figlio si fa così denso da diventare quasi una parete invisibile.

È lì che Adolescence centra il cuore del problema: senza un’educazione alle emozioni, senza parole per nominare la rabbia, la paura, la delusione, tutto si trasforma in violenza. Spesso muta. A volte esplosiva. Ma sempre distruttiva. La serie mette in evidenza l’urgenza di un’educazione emotiva.

La scena conclusiva della serie è emotivamente devastante, che la si guardi da genitore o meno, è la rappresentazione più fedele, la manifestazione più reale della domanda che tutti i genitori potrebbero trovare a farsi nella vita: che cosa abbiamo sbagliato?

Guardare questa serie fa male. Ma non guardarla è peggio.
Chiudere gli occhi significa rendersi complici. E se c’è una colpa che Adolescence ci sbatte in faccia, è quella dell’indifferenza.

Una regia che è un’operazione chirurgica sui nostri nervi

Girare tutto in piano sequenza non è solo un vezzo estetico: è una scelta drammaturgica radicale. La camera ci costringe a seguire tutto, a non poter fuggire. Ogni momento è continuo, ogni emozione ci attraversa in tempo reale. Sentiamo il peso e l’incertezza e il disagio dei personaggi, siamo lì con loro. Non possiamo saltare la scena, non possiamo sapere dove stiamo andando, né trovare rifugio nel montaggio.

Adolescence ci obbliga a essere presenti, a restare nel dolore.

Il risultato è un coinvolgimento emotivo senza precedenti. Siamo lì, tra i corridoi, nei bagni, nelle cucine di case apparentemente normali, dentro scuole dove tutto sembra funzionare e invece niente funziona davvero.

Un’ora di visione corrisponde a un’ora reale di vita: il tempo diventa spazio psicologico, tensione interna, lotta tra identità, colpa e desiderio di redenzione.

Guardatela! Guardatela adesso.
Portatela nelle scuole, nei gruppi di genitori, tra gli educatori. Discutetene.
Perché Adolescence è molto più di una serie tv, è un atto politico, una dichiarazione d’intenti, un grido disperato ma lucidissimo.
E soprattutto è un invito, spietato ma necessario, a tornare a guardare i nostri figli. Non con sospetto.

Ma con attenzione.

E amore. Profondo.

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