15 Mag 2025

“Aprile” – Esperienza di attacco di panico

di Marzia Casilli


 

L’aria di aprile sapeva di rinascita, metallo e malinconia. La città si svegliava sotto cieli screziati di luce, i tigli ancora nudi abbozzavano le prime gemme, e sul nespolo del giardino, all’angolo, si affacciavano le nespole acerbe.

Lungo i viali i fiori parevano esplodere in macchie improvvise di colore: narcisi timidi, tulipani arditi, qualche margherita che aveva deciso di nascere prima del tempo. Il sole filtrava tra le nuvole come un vecchio vinile graffiato, ma scaldava lo stesso.

Filippo stringeva la tracolla con i libri come fosse un salvagente. Seduto sul sedile vicino al finestrino dell’autobus numero 24, osservava la città scorrere via in frammenti. Palazzi color ocra, biciclette incatenate, cani in attesa fuori dai forni. Il cuore gli batteva più forte del solito, se lo sentiva nella testa, battere tra i denti. Era agitazione, certo, l’esame di letteratura americana lo attendeva in facoltà tra meno di due ore, ma c’era anche qualcos’altro. Una tensione più sottile, come se il mondo intorno fosse troppo acceso, troppo presente. Come se ci fosse troppo aprile negli occhi.

La voce dell’autista annunciò la sua fermata e Filippo scese. Fece qualche passo, poi si rifugiò nel bar all’angolo, uno di quei locali stretti con il bancone di marmo e voci che rimbalzano da una parte all’altra come palline da flipper. Si sedette a un tavolino vicino alla vetrata, ordinò un caffè, posò lo zaino e cercò di respirare.

Ma qualcosa stava cambiando. La sua testa pareva non avere un peso, era vuota.

All’improvviso, il pavimento sembrò inclinarsi. Una nausea sottile gli strinse la gola. Il cuore gli galoppava nel petto, troppo in fretta, come se volesse scappare da qualcosa. Le mani cominciarono a sudare. Si alzò di scatto, sbatté contro la sedia, cercò di uscire ma non riusciva a mettere a fuoco la porta. Tutto si muoveva, tutto era suono e confusione. Pensò che sarebbe morto.

Ragazzo? Tutto bene?

Una voce dolce, ma ferma, lo raggiunse. Una cameriera, sui trent’anni, occhi verdi e mani gentili. Lo accompagnò a una sedia più appartata. Gli porse un bicchiere d’acqua, gli parlò con calma. Respirare. Solo respirare.

È solo un attacco di panico. Sta passando. Ci sono passata anch’io. Continua a respirare.

Le parole si fecero strada nel suo cervello come mani che sistemano lenzuola stropicciate. Lentamente, il mondo ricominciò a trovare una forma. Filippo restò lì, immobile, finché il respiro non si fece più profondo e regolare. La cameriera restò con lui, senza fargli domande, senza giudicare.

Se ne andò zuppo di sudore.

Più tardi, all’università, Filippo superò l’esame. Con una lucidità che lo sorprese. Aveva parlato di Melville, di Dickinson e dei venti dell’Ovest che piegano le praterie. Aveva parlato di perdita e di memoria, e forse nessuno sapeva bene quanto ci stesse mettendo di suo, della sua vita.

Fu tornando verso casa, seduto di nuovo sull’autobus, che ricordò.

Al bar, prima che tutto cominciasse, una donna mora, con le dita lunghe delle mani, seduta due tavoli più in là aveva chiesto qualcosa al cameriere. La sua voce era arrivata limpida fino a lui:

Mi porta, per favore, un bicchiere d’acqua liscia… con solo un dito di frizzante?

Lo stesso modo, le stesse parole. Anche l’indice e il pollice a indicare quel po’ di quantità.

Sua madre beveva solo così. Acqua liscia, ma con un tocco di bollicina. Diceva che era un compromesso con l’entusiasmo.

Era morta l’anno prima, a maggio, dopo mesi di silenzio e flebo e vestaglie sempre più larghe. In dei pigiami enormi in cui sembrava un triste pulcinella. Nella sua stanza tutto era rimasto com’era. L’armadio ancora pieno dei suoi vestiti fiorati. I fiori che sembravano promettere primavera anche nei giorni più grigi. Come i fiori di aprile: audaci, leggeri, eterni solo in apparenza.

Filippo chiuse gli occhi. Un piccolo nodo gli si sciolse in gola. Per un attimo tornò la sensazione di un nuovo attacco di panico. C’era qualcosa da risolvere.

Forse era vero che certe cose non passano. Ma si possono attraversare. E c’era qualcosa di straordinariamente umano in quel dolore che ritorna quando meno te lo aspetti. Come un profumo, un gesto, un bicchiere d’acqua.

Scese dall’autobus a due fermate da casa. Aveva bisogno di camminare.

Il cielo era di nuovo invaso dal sole.

E aprile, ancora una volta, sembrava promettere di non morire mai.

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