di Alessandra Pastore
Evitare ogni spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita dai territori di cui al presente articolo, nonché all’interno dei medesimi territori, salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute.
Articolo 1 comma a) della Gazzetta Ufficiale, 2020
È consentito il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza
Era la notte tra il 7 e l’8 marzo, in cui il Presidente Giuseppe Conte leggeva il decreto legislativo urgente per il contenimento del contagio da Covid-19 nella regione Lombardia e in 14 province del nord Italia. Qualche giorno dopo, l’11 marzo 2020, il premier annunciava a rete unificate quanto segue:
“Siamo consapevoli di quanto sia difficile modificare le nostre abitudini. Ma purtroppo non c’è tempo. I numeri ci dicono di una crescita importante dei contagi, dei ricoveri in terapia intensiva e dei decessi. Ai loro cari va la vicinanza di tutti gli italiani. Le nostre abitudini vanno cambiate ora. Dobbiamo rinunciare tutti a qualcosa per il bene dell’Italia, e lo dobbiamo fare subito. Adotteremo misure più forti per contenere il più possibile l’avanzata del coronavirus e per tutelare la salute di tutti i cittadini. Sto per firmare un provvedimento che potrei definire così: #iorestoacasa”
Ministero della Salute, 2020
Tutto è iniziato a Wuhan, in Cina dove, a dicembre del 2019, è stato identificato il primo caso di infezione da Coronavirus (SARS-CoV-2). Il 18 gennaio 2020 veniva registrato il terzo decesso e il 30 gennaio 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, 2020) dichiarava l’”emergenza pubblica di interesse internazionale” e il nostro governo, l’unico in Europa, bloccava i voli da/per la Cina.
Non ci aspettavamo che questo virus, apparentemente così lontano, potesse diffondersi così rapidamente e stravolgere le nostre vite e le nostre abitudini.
L’epidemia da Covid-19 è diventata ben presto una pandemia globale, con conseguenze che non hanno precedenti nell’era moderna.
Gli scienziati hanno iniziato a lavorare sin da subito per individuare le caratteristiche del virus, tra cui la trasmissibilità, il tasso di mortalità e l’origine (Perlman, 2020).
In parallelo lo hanno fatto anche i governi e i giornalisti per comunicare le informazioni necessarie affinché gli individui potessero adottare le precauzioni appropriate per evitare il contagio.
Dunque, mentre da un lato si cercava di mitigare gli effetti deleteri sulla salute della popolazione di tutto il mondo, dall’altro emergeva una minaccia ad esso correlata: il disagio psicologico causato dalla sovraesposizione mediatica e dalla diffusione di notizie spesso contraddittorie.
Ottenere le informazioni giuste al momento giusto può sicuramente salvarci la vita, ma la dura realtà odierna è che, in tutto il mondo, il settore delle informazioni è infestato dalle fake news.
Cosa sono le Fake News?
Le fake news possono essere designate come informazioni -in parte o del tutto- non corrispondenti al vero, divulgate intenzionalmente o meno, attraverso il Web, i media o le tecnologie digitali di comunicazione.
La diffusione della disinformazione non è nuova, risale almeno ai primi giorni di stampa (Wang et al. 2019).
Anche il termine fake news è stato coniato per la prima volta nel 1925, quando un articolo su Harper’s Magazine, intitolato “Fake News and the Public“, lamentava il modo in cui i notiziari stavano permettendo la diffusione della disinformazione in maniera rapida (McKernon, 1925).
Nell’ultimo periodo si sente sempre più parlare del termine “infodemia”.
A citarlo per la prima volta è stata l’OMS, all’interno di un suo report sul Covid-19 (WHO, 2019).
Nel report l’OMS punta il dito contro una sovrabbondanza di informazioni legate a quello che sta accadendo nel mondo. Secondo l’OMS l’epidemia è “accompagnata da una massiccia infodemia, ovvero un’abbondanza di informazioni, alcune accurate e altre no, che rendono difficile per le persone trovare fonti affidabili quando ne hanno bisogno”.
La proliferazione di fake news in questo periodo ha portato il Ministero della Salute a diffondere un comunicato in cui si raccomanda di cercare informazioni su fonti istituzionali ufficiali e certificate.
Tale comunicato riporta le 12 fake news più frequenti (Ministero della Salute, 2020):
- I farmaci antivirali prevengono l’infezione da nuovo coronavirus
- La Tachipirina cura l’infezione da nuovo coronavirus
- Mangiare aglio può aiutare a prevenire l’infezione da nuovo coronavirus
- Bere tanta acqua lava il virus dalle vie aeree e lo spinge nello stomaco dove viene distrutto dall’acido
- Mangiare tante arance e limoni previene il contagio perché la vitamina C ha azione protettiva nei confronti del nuovo coronavirus
- Mangiare tante proteine aumenta l’efficacia del sistema immunitario
- Gli antibiotici prevengono l’infezione da nuovo coronavirus
- Il virus Sars-CoV-2 vola nell’aria fino a 5 metri
- Bere acqua o bevande calde uccide il virus
- Il nuovo coronavirus può essere trasmesso attraverso le punture di zanzara
- Il risciacquo regolare del naso con soluzione salina può aiutare a prevenire l’infezione da nuovo coronavirus
- Una lampada a raggi ultravioletti può uccidere il nuovo coronavirus
I social media, se da un lato garantiscono la gratuità e una maggiore fruibilità delle informazioni, dall’altro rappresentano un terreno fertile per le fake news.
Condividere contenuti non è più una prerogativa della classe giornalistica, chiunque può avere l’accesso e può diffondere le informazioni.
Inoltre, internet sfugge al controllo e le notizie trovate su di esso possono non rispettare le norme deontologiche dei giornalisti.
Nell’ambito della salute, molta preoccupazione si è concentrata sulla diffusione della disinformazione sulle vaccinazioni da parte del movimento no-vax, ma esse interessano anche la politica, i mercati azionari e la nutrizione. E non è tutto!
Oltre a persone in carne e ossa, questo settore impiega migliaia di social bot (account automatici).
Su Twitter tra il 9 e il 15% degli account attivi sono bot (Varol,O., et al., 2017).
Facebook ha stimato fino a 60 milioni di bot (Committee on the Judiciary, 2017).
Qual è la motivazione sottostante la creazione di fake news?
Ottenere maggiore visibilità, da parte di persone desiderose di fama, per rafforzare teorie pseudoscientifiche o complottiste, per condizionare l’opinione pubblica (ad esempio per ottenere consensi elettorali) o per denaro, in quanto si guadagna dalla condivisione dei post.
Come possiamo riconoscere i bot? (Perekalin, A. 2020):
- Sono stati creati esattamente nella stessa data;
- Hanno somiglianze nei nomi o nei titoli;
- Il post reindirizza agli stessi siti;
- Scelgono le stesse parole;
- Fanno gli stessi errori grammaticali;
- Gli account si seguono vicendevolmente o seguono account simili;
- Utilizzano gli stessi tool come gli accorciatori di URL;
- Sono attivi solo durante certi periodi di tempo (che coincidono);
- Hanno descrizioni simili;
- Come immagini di profilo utilizzano foto generiche o foto di persone che si trovano facilmente su Google.
Qual è il segreto del loro successo?
Gli individui tendono a non mettere in dubbio la credibilità delle informazioni, a meno che non violino i loro precontetti (Merchant, et. al., 2020).
Le persone tendono ad accettare le informazioni in modo acritico, ad allineare le loro convinzioni con i valori della comunità di riferimento e a preferire le informazioni che confermano le opinioni preesistenti.
Tale fenomeno viene definito come esposizione selettiva o bias di conferma.
Gli individui tendono, dunque, a selezionare le informazioni che sono congeniali alle loro decisioni, atteggiamenti e convinzioni e a rifiutare, invece, ciò che le contraddice, anche di fronte a prove incontestabili (teoria della dissonanza cognitiva di Festinger).
Chi diffonde fake news conosce bene questi meccanismi, sa che il nostro cervello ha bisogno di schemi per categorizzare la realtà e che ha la forte tendenza a confermare quegli schemi.
Un soggetto tende, quindi, a considerare vere quelle che confermano lo schema già acquisito senza effettuare alcuna verifica. Quella che viene colpita è l’emotività dell’utente.
Evocando rabbia o disprezzo, quest’ultimo, avrà maggiori probabilità di condividere la notizia fonte di sdegno.
Quali sono le cosenguenze?
Durante i momenti di incertezza e di crisi, l’opinione pubblica può aumentare la propria dipendenza dai media (Ball-Rokeach & DeFleur, 1976).
Da uno studio pubblicato su Science Advanced è emerso che il legame stabilito tra l’esposizione mediatica legata ai traumi e il disagio può essere ciclico: il disagio può aumentare il successivo utilizzo dei media legati ai traumi, portando a un aumento del disagio e dell’angoscia per eventi futuri, il che porta a un’angoscia ancora maggiore, quando questi eventi alla fine si verificano realmente (Thompson et al., 2020).
L’epidemia da coronavirus ha costretto milioni di persone all’isolamento forzato, ciò ha creato stress e disagio.
Le conseguenze possono essere:
- Iper-valutazione della minaccia
Maggiore angoscia e preoccupazione si è verificata, ad esempio, nel contesto dell’influenza suina (H1N1) (Taha, Matheson, & Anisman, 2014) o durante l’Ebola (Thompson, Garfin, Holman, & Silver, 2017); - Aumento dei comportamenti di ricerca di aiuto
Che possono essere sproporzionati rispetto alla minaccia reale, sovraccaricando di fatto le strutture sanitarie. Ciò si è verificato, ad esempio, durante le precedenti epidemie, dove alti livelli di esposizione mediatica hanno provocato un’impennata delle visite al pronto soccorso (McDonnell, Nelson, & Schunk, 2012); - Corsa all’acquisto di risorse critiche (Merchant & Lurie, 2020)
Ad esempio l’acquisto di articoli essenziali come carta igienica, cibo, acqua in bottiglia, disinfettante per le mani, bombole per l’ossigeno, ecc., che ha portato, in alcuni casi, a carenze globali; - Evitamento delle cure stesse
Per alcune persone la paura di essere infettate, durante le visite alle cliniche mediche, potrebbe portare a un evitamento delle cure stesse. L’epidemia di sindrome respiratoria acuta (SARS) del 2003, ad esempio, è stata correlata a una sostanziale diminuzione dell’utilizzo dell’assistenza sanitaria (Chang et al., 2004).
Costituiscono fattori di rischio all’insorgenza del disturbo da stress post-traumatico (PTSD):
- Esposizione diretta e indiretta ai media su traumi collettivi (Garfin et al., 2015; Brewin et al., 2000);
- Diagnosi pre-pandemica di depressione o stress acuto (Breslau et al., 2008);
- Fattori di stress secondari, come perdita di lavoro, carenza di beni di prima necessità, isolamento sociale (Holman, et al. 2020).
Sulla base di ciò il team del Dr. Bonati, responsabile del Dipartimento di Salute Pubblica dell’Istituto Mario Negri, ha effettuato un sondaggio online.
L’effetto psicologico della quarantena è stato valutato attraverso il Covid-19 Peritraumatic Distress Index (CPDI), test di rapida somministrazione sviluppato in Cina, validato in Italia e in altre nazioni.
Dai risultati emerge che molti dei sintomi possono essere ricondotti ai Disturbi dell’Adattamento (Negri, M. 2019).
Nei Disturbi dell’Adattamento i sintomi emotivi e comportamentali si sviluppano in risposta a uno o più eventi stressanti identificabili e, a differenza del Disturbo da stress acuto e del PTSD, insorgono a seguito di eventi stressanti di qualsiasi gravità (American Psychiatric Association, 2013).
Dal sondaggio emerge che (Negri, M., 2019): “il 52,6% dichiara di aver avuto delle ricadute psicologiche durante la quarantena, ma solo il 5,3% della popolazione riferisce un impatto grave. Il disagio psicologico più diffuso (9,9%) è rappresentato da sintomi piuttosto importanti, come la depressione: cattivo umore e apatia caratterizzano la maggioranza degli intervistati.
Possibili interventi per contrastare la disinformazione
Un team dell’università di Cambridge ha ideato un gioco online in cui i giocatori competono tra loro per diventare dei “maestri della disinformazione”.
Ogni giocatore parte da 0 follower e, attraverso le tecniche della falsificazione più diffuse, deve accumulare quanti più follower possibile su Twitter.
Deve creare caos, distorcendo la realtà o seminando nuove falsità, sfruttando ad esempio falsi medici e rimedi.
L’obiettivo è quello di rendere consapevoli dei meccanismi che si celano dietro la creazione di fake news, con la speranza che ciò funga da “vaccino” e renda le persone immuni alla diffusione delle falsità.
Ciò si basa sulla teoria della inoculazione, sviluppata dallo psicologo sociale William J. McGuire nel 1961. Secondo tale teoria le persone che vengono pre-esposte a controargomentazioni deboli possono sviluppare delle difese contro di loro.
Il soggetto cercherà informazioni di supporto per rafforzare la propria posizione minacciata e ciò renderà la persona più resistente a un attacco più forte.
Da qui l’analogia con la vaccinazione (Banas & Rains, 2010).
Certo il rischio che tale gioco possa essere una palestra per allenarsi è concreto (Sample, I., 2018).
Come potrebbero i social media aiutare a ridurre la diffusione di fake news?
In generale il modello di business di Facebook, Twitter e Google si basa sulla monetizzazione dell’attenzione attraverso la pubblicità.
Vengono utilizzati degli algoritmi complessi per prevedere e massimizzare il coinvolgimento degli utenti (Bakshy, E. et al., 2015).
Le piattaforme potrebbero utilizzare questi algoritmi per frenare la diffusione di contenuti di notizie da parte di bot.
Certo è difficile per una persona figuriamoci per un algoritmo, inoltre i produttori di bot saranno in grado di progettare contromisure efficaci.
L’augurio è che scienziati, psicologi, informatici, possano, non solo collaborare tra loro, ma anche impegnarsi con le imprese e consumatori di internet a comprendere meglio e contrastarne gli effetti di questo fenomeno sociale, che diventa sempre più importante.
Occorre, quindi, imparare a distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è, leggere le notizie online con maggiore senso critico, consultare diverse fonti e soprattutto affidarsi, quando possibile, a quelle ufficiali.
Infine, in caso di sintomi d’ansia eccessivi e duraturi contattare uno specialista.
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