12 Dic 2023

Letteratura e Psicoterapia: Su David Foster Wallace e il male del secolo

di Marzia Casilli


QUESTO È DAVID. QUESTA È LA VITA.

Sono quasi 15 anni che David Foster Wallace non c’è più.

Chi era? Qualcuno l’avrà sentito nominare, qualcun altro lo avrà leggicchiato, qualcun altro ancora avrà copiato e  incollato le sue citazioni sui social.

Altri diranno di averlo letto senza mai aver aperto nemmeno una pagina, per darsi un’aria importante si saranno riempiti la bocca con il suo nome. Lo avranno lasciato scivolare con disinvoltura, tra una conversazione pseudo intellettuale e l’altra, in un bar con in mano un drink con ghiaccio e ombrellino.

Perché attingere a una cosa così ti dà spessore e ti rende intelligente, colto agli occhi di altra gente cosiddetta colta.

Pochi lo avranno letto.

Pochissimi lo conoscono. Davvero.

Chi era David Foster Wallace? Chi era l’uomo che al confine dell’estate, in un tiepido settembre appena iniziato, era salito su una sedia e si era impiccato?

David Foster Wallace è stato, intanto, il più grande scrittore dalla sua generazione.

È stato quello che J. D. Salinger era stato per i suoi contemporanei e per coloro che sono venuti dopo.

Ma era stato – è ancora- anche molto, moltissimo di più.

David era nato a Ithaca nello stato di New York, quando aveva appena due anni la famiglia si era trasferita in una cittadina nella terra desolata dell’Illinois e lì era cresciuto.

Il padre insegnante di filosofia all’Università, la madre laureata in lettere.

Insieme alla sorellina più piccola, Amy, David era venuto su in compagnia dei ragazzini del vicinato molto simili tra loro, famiglie tranquille che attribuivano un grande valore allo studio e all’educazione.

La famiglia Wallace era una famiglia di accademici, l’ambiente era rispettoso ma non severo, si passava il tempo a fare giochi di parole, riordinare, leggere. La libreria, le parole erano al centro del loro vivere quotidiano.

Una volta, durante un’intervista, David aveva detto “Ricordo i miei genitori che si leggevano a voce alta l’Ulisse nel letto, tenendosi per mano, condividendo un amore intenso per qualcosa.”

La madre – Sally- era il fulcro dell’universo di David.

Era spiritosa, allegra e intelligente, di quell’intelligenza non saccente, che silenziosa, discreta abitava la sua mente. Nessuno ascoltava David quanto sua madre. E fu lei a trasmettergli l’amore viscerale – o l’ossessione- per le parole.

In futuro David avrebbe ricordato la passione che lei gli aveva contagiato anche per la grammatica.

Era così precisa, riprendeva subito i figli con un leggero colpo di tosse quando sbagliavano, e nel caso non esistesse un termine specifico per indicare qualcosa, se mancava una parola che potesse esprimere al meglio ciò che lei voleva davvero dire, Sally lo inventava.

E anche questo, David, lo ha preso dalla madre.

Per Sally l’uso corretto della grammatica era ciò che garantiva l’accesso al club delle persone istruite.

La comunicazione era qualcosa di pensato, ponderato e studiato a casa Wallace, nulla era lasciato al caso.

Sally non era emotivamente in grado di affrontare liti o discussioni, perciò quando qualcosa la turbava o la infastidiva, era solita scrivere una lettera per comunicarlo.

E così aveva imparato a fare anche David.

C’era un sistema di comunicazione simile a un ingranaggio delicato in quella casa, si stava sempre attenti a non ferire.

Soprattutto Sally, aveva sempre cercato di proteggere il figlio da ogni sorta di turbamento che potesse incontrare sulla sua strada. Si camminava come sulle uova tra un sentimento e l’altro.

Lo stesso rapporto amorevole e curativo, lo aveva col padre- Jim- che a differenza della madre era solo un po’ più distante. Ma aveva scoperto presto quanto David fosse dotato di una straordinaria intelligenza e capacità di pensare, quando a soli 13 anni gli diede da leggere il Fedone, il testo di Platone che parla della vita dopo la morte.

David ebbe, senza alcun dubbio, un’infanzia felice e ordinaria. Era un bambino come tutti gli altri, un po’ gracilino, la frangetta e i capelli lisci come spaghetti, i denti distanziati.

Credeva di essere un ragazzino normale e lo era. Solo che proveniva da una famiglia di talenti in cui regnavano l’amore e la protezione.

Una famiglia che era stata in grado di creare una rete di idee e di principi così solida che si imponeva sul mondo là fuori.

Ovviamente, però, tutto questo gli creò non pochi problemi relazionali al di là di quel cerchio, soprattutto con gli adulti. Scoprì che al contrario dei suoi genitori, quasi nessuno era interessato alla sua opinione.

Oltre alle parole, David era appassionato di televisione. Sembra un paradosso, e forse lo è.

Era entusiasmato da programmi televisivi come Batman o Wild Wild West, riusciva a memorizzare tutti i dialoghi e anche a prevedere, come un meteorologo, quello che sarebbe successo ai personaggi.

Più cresceva, più lo spessore e l’apertura mentale della sua famiglia non gli permettevano di sentirsi a suo agio. Aveva la sensazione di essere una frode, era già in qualche modo malato della sindrome dell’impostore, come scrisse in seguito. Era convito che le aspettative dei suoi genitori fossero troppo alte ed era certo che le avrebbe disattese.

L’inizio dell’adolescenza, fu per David  l’inizio – senza una fine- di un tunnel di disturbi mentali, ansia, ossessioni, depressione.

Non faceva che chiudersi in camera e vomitare, raccontò sua sorella parlando dei primi anni delle superiori, anni che dal punto di vista accademico furono splendenti: ottimi voti in tutte le materie.

Una mente brillante. Tanto brillante quanto fragile. Era tra i migliori del suo anno, una media altissima tutte le materie, eccelleva in quelle umanistiche come il componimento ma anche in matematica e logica.

All’ultimo anno delle superiori la situazione mentale di David peggiorò ulteriormente, con l’avvicinarsi del college, l’ansia che fino a quel momento era rimasta sotto la superficie della sua quotidianità cominciò a rivelarsi con veri e propri attacchi di panico.
Fu un periodo determinante per la sua salute mentale, infatti, fu allora che David si rese conto dei pericoli e delle trappole che albergavano la sua mente.

Al college – scelse il primo in cui fu ammesso, Amherst, frequentato a suo tempo dal padre, per non sottoporsi ad altri colloqui di ammissione che gli provocavano attacchi di panico e forte nausea-  si dedicò alla scrittura: nemmeno 23enne diede vita a gioielli narrativi come il romanzo La Scopa del Sistema e La ragazza dai Capelli Strani, Il Pianeta Trillafon in relazione alla Cosa Brutta, in cui si riversava un David ancora acerbo ma già così illuminato.

I suoi anni da qui in poi furono caratterizzati da grandi successi professionali, gratificazioni, meriti, certificazioni, specializzazioni, lunghi periodi di entusiasmo a cui seguivano altrettanti lunghi periodi di buio. Periodi di ricoveri in centri psichiatrici, di trattamenti forti come le sedute di elettroshock a cui ha dovuto sottoporsi, periodi di antidepressivi e di isolamento dal mondo.

La depressione di Wallace

Relazioni promiscue, sempre in cerca di quel tipo di amore che desiderava e allo stesso tempo allontanava. 

Più volte dovette prendersi una pausa dal Campus e tornare a casa.

Da questo momento parlare di David mi è difficile, parlo di una mente meravigliosa che ha saputo regalare al mondo il suo splendido, prezioso e unico punto di vista. E parlo anche di una mente che forse- proprio per questo- lo ha imprigionato nei suoi personali fantasmi.

Parlo di un amico.

Perché David ha saputo raccontare al mondo che cosa significa davvero essere vivi e umani. E ciò che voleva lui, il suo obiettivo, non era solo raccontarlo, scriverlo nel miglior modo possibile, ma anche cercare di offrire ai suoi lettori una soluzione, una via d’uscita, una cura. Fare in modo che nessuno, a questo mondo, nessuno che si imbattesse nelle parole di David Foster Wallace si potesse sentire solo.

La depressione che lo fagocitò a tratti per tutta la sua vita, divorandolo poi interamente, lui aveva saputo descriverla fin da ragazzo, definendola anche come un buco nero con i denti, come ricorda la madre.

Nel suo racconto Il Pianeta Trillafon in relazione alla Cosa Brutta, storia di un ragazzo che si ritira dal college a causa di problemi psichiatrici, descrive la depressione – chiamandola la Cosa Brutta- così:

“Ecco pressappoco cos’è in sostanza la Cosa Brutta. Tutto in voi è nauseato e paradossale. E siccome l’unica conoscenza che si ha del mondo intero passa attraverso le varie parti del corpo – tipo gli organi sensoriali, la mente, ecc. – e siccome queste parti hanno una nausea da morire, il mondo intero che voi percepite, conoscete e abitate vi arriva filtrato da questa brutta nausea e diventa brutto. E tutto diventa brutto in voi, tutto il bello esce dal mondo come l’aria esce da un pallone rotto. Di questo mondo conoscete solo mefitiche puzze di marcio, visioni tristi e paradossali dai lividi colori pastello, suoni aspri o di una tristezza mortale, situazioni insopportabili e indefinite disposte in un continuum senza fine… Idee incredibilmente stupide, disastrose. E succede proprio come quando ti viene la nausea e sotto sotto hai paura che non passerà mai: la Cosa Brutta ti spaventa allo stesso modo, solo peggio, perché la paura stessa è filtrata dalla brutta malattia e diventa più grande, peggiore e famelica di quando è cominciata. Ti squarcia, si insinua e ti si agita dentro. Perché la Cosa Brutta attacca non solo te facendoti sentire male e mettendoti fuori uso, ma attacca in special modo, fa sentire male e mette fuori uso proprio le cose che ti servono a combattere la Cosa Brutta, a sentirti magari meglio, a restare vivo. […]
Vi ha fatto ammalare in modo da non permettervi di guarire. E voi cominciate a pensare a questa situazione veramente atroce e vi dite: – Mannaggia, come cavolo è riuscita la Cosa Brutta a fare questo? – Ci pensate su, ci pensate davvero bene perché è nel vostro interesse, e poi tutt’a un tratto avete come un’intuizione… la Cosa Brutta riesce a farvi questo perché voi siete la Cosa Brutta!”

Riguardo agli antidepressivi, nel racconto scrive “Prendo gli antidepressivi da, quanto sarà, un anno, e ritengo di avere i numeri per dire come sono. Sono straordinari, davvero, ma sono straordinari come sarebbe straordinario vivere, che so, su un altro pianeta caldo e comodo fornito di cibo e acqua fresca: sarebbe straordinario, ma non sarebbe la cara vecchia Terra.”

Nel Pianeta Trillafon, oltre la capacità di rendere vivida la sensazione che prova chi attraversa la depressione, c’è anche lo sfatamento del mito depressione uguale profonda tristezza.

Non solo perché lui era esattamente l’opposto e la combatteva con la sua ironia, la bandana contro il sudore a profusione che gli scendeva dalla fronte e quell’aria da clown, ma anche perché come scrive nel racconto:

“Prima avevo sempre pensato che la depressione fosse come una tristezza davvero profonda, tipo quella che ti prende quando muore il tuo bravo cagnolino, o quando in Bambi uccidono la madre di Bambi. Pensavo che t’imbronciassi un po’ e magari se eri una femmina versavi qualche lacrimuccia dicendo: – Per la miseria, sono davvero depressa, – ma poi vengono gli amici, se ce li hai, a tirarti su il morale e a rimetterti in sesto e poi al mattino – come un colore sbiadito e dopo un paio di giorni chi se lo ricorda più. La Cosa Brutta – e mi sa che la depressione è questo e nient’altro – è molto diversa, e indescrivibilmente peggio. Mi sa che dovrei dire più o meno indescrivibilmente, perché nell’ultimo paio d’anni ho sentito le persone più disparate cercare di descrivere la «vera» depressione. Uno della televisione con lo scilinguagnolo ha detto che secondo certi è come sott’acqua, sotto una massa d’acqua che non ha superficie, almeno per te, che qualunque direzione prendi trovi soltanto altra acqua, niente aria fresca né libertà di movimento, solo restrizioni e soffocamento, e niente luce.”

Oltre che uno scrittore eccezionale, David fu anche un insegnante di scrittura creativa, in diversi periodi della sua vita e in diversi college, l’ultimo a Pomona. E anche in questo ruolo, certo mediocre non avrebbe potuto risultare. Lui la mediocrità non l’ha mai neppure sfiorata.

“Non fate il dito medio al vostro talento”, raccomandava ai suoi allievi, che lo adoravano come un Dio in terra.

Il panorama letterario americano ormai lo venerava, grandi amici per lui furono i famosi scrittori Don De Lillo e Jonathan Franzen. Quest’ultimo lo accompagnò per tutta la vita fino all’ultimo.

Nel febbraio del 1996 usciva in tutte le librerie Infinite Jest, un romanzo di 1400 pagine che non era un romanzo. Infinite Jest è una mappa, zampillante di creatività e anche comicità, su come cercare di vivere la vita. Su come male interpretiamo la realtà o spesso la ignoriamo perché troppo impegnati a viverla.

“Ci sono due pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: “Salve, ragazzi. Com’è l’acqua?” I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa “Che cavolo è l’acqua?”

Il tutto riguarda anche la comicità. Perché, così come era contradditorio il fatto che dentro una mente come la sua convivesse una spasmodica passione per la lettura e una dipendenza dalla televisione, alla stessa maniera convivevano una profonda tristezza spiegata attraverso una talentuosa comicità.

Infinite Jest è il romanzo che l’ha consacrato, l’ha mostrato al mondo intero per il sacro talento che era, come scrittore e come pensatore.

Un modo di scrivere, quello di Wallace, che ha dato vita a nuova letteratura, che si contrapponeva al genere narrativo del minimalismo, del post modernismo e più in generale alla produzione letteraria  contemporanea che, secondo lui, si accontentava di mettere in scena i sintomi del malessere dei tempi piuttosto che tentare di risolverlo.

Il matrimonio

Nel 2004 David sposò Karen Green, una poetessa conosciuta anni prima, che perfettamente si incastrava con l’anima tormentata e sensibile di Wallace.

I due passarono insieme quattro meravigliosi anni in compagnia dei loro cani che David amava come dei figli.

Non voleva figli perché aveva paura di trasmettergli quella che lui definiva la sua “instabilità emotiva”.

Karen si prese cura di lui, come a suo tempo aveva fatto Sally, sua madre, proteggendolo dal mondo che lo circondava, creando una realtà diversa nel loro cerchio chiuso.

Ma questo a David non bastò.

La Cosa brutta tornò da lui – o tornò a essere lui, come direbbe David-, ci furono lunghi periodi di ricadute, di ricoveri, di paranoie.

Il suo malessere era anche strettamente collegato alla scrittura. A un certo punto era come se avesse troppo da dire, come se provasse troppo per poter essere detto.

Lo aveva scritto nel racconto Caro Vecchio Neon “Quello che avviene dentro è troppo veloce, immenso e interconnesso e alle parole non rimane che limitarsi a tratteggiarne ogni istante a grandi linee al massimo una piccolissima parte.”

David era esausto. Scavato, terrorizzato. Nemmeno all’apice di un successo professionale ma soprattutto sentimentale, come il matrimonio felice tra lui e Karen, riusciva a vivere.

Nel 2005 venne chiamato dal suo vecchio College a tenere un discorso di commiato per i laureandi di quell’anno, quel discorso fu così illuminato e intenso da essere stato trascritto in una raccolta di racconti chiamata Questa è l’Acqua.

“Il genere di libertà davvero importante richiede attenzione, consapevolezza, disciplina, impegno e la capacità di tenere davvero agli altri […]. Questa è la vera libertà. Questo è imparare a pensare.”

La verità con V maiuscola riguarda vita prima della morte. Riguarda il fatto di toccare i trenta, magari i cinquanta, senza il desiderio di spararsi un colpo in testa. Riguarda il valore vero della cultura, dove voti e titoli di studio non c’entrano, c’entra solo la consapevolezza pura e semplice: la consapevolezza di ciò che è così reale e essenziale, così nascosto in bella vita sotto gli occhi di tutti da costringerci a ricordare di continuo a noi stessi: << Questa è l’acqua, questa è l’acqua.>>.

Farlo, vivere in modo consapevole adulto, giorno dopo giorno, è di una difficoltà inimmaginabile.

E questo dimostra la verità di un altro clichè: la vostra cultura è realmente il lavoro di una vita, e comincia… adesso. Augurarvi buona fortuna sarebbe troppo poco.”

Nell’ultimo periodo David sembrava ormai svuotato, la luce nei suoi occhi, infestati di fantasmi, era sempre più fioca.

Dopo un tentativo fallito di porre fine alla sua vita, i genitori si erano trasferiti da lui per dare una mano a Karen e lasciare David il più possibile meno solo.

Sally era tornata a preparargli i suoi piatti preferiti, Jim leggeva per lui. Se ne prendevano cura come quando era bambino.

E forse una parte, una grande parte di lui era rimasta quel bambino.

Sembrava stare meglio, così i suoi genitori ripartirono e Karen e David tentarono di riprendere una vita normale. Alla partenza David ringraziò Sally di essere sua madre e lei rispose che era un onore.

Karen si sentiva più rassicurata, David sembrava tornato quasi appieno nel mondo, aveva addirittura deciso di andare dal chiropratico. E questo la convinceva ancora di più che il marito si stesse riprendendo. Disse “non vai dal chiropratico se stai per suicidarti.”

Il 12 settembre del 2008 Karen Green uscì di casa per qualche ora e sappiamo tutti come è andata a finire. Aveva 46 anni.

Karen disse poi di essere certa che prima di farlo, prima di mettere piede su quella sedia, David avesse baciato i suoi cani e gli avesse chiesto scusa.

A David dobbiamo non solo lo sforzo sovraumano di aver mostrato al mondo che cosa significa essere un “fottuto essere umano”, ma anche il merito di esserci riuscito.

Grazie David per aver abitato questa terra, per averci lasciato questo immenso patrimonio artistico e umano, e soprattutto per averci regalato angoli di una illuminata compagnia e consolazione dentro gelidi quadrati di solitudine.

“Il senso dell’amore sta tutto nel tentativo di infilare le dita nei buchi della maschera della persona che ami”.
So di non essere riuscita a spiegarlo – perché è impossibile- ma questo è David Foster Wallace.

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