di Marzia Casilli
Una biglia luminosa
Era notte fonda, io e Anna dormivamo un sonno tranquillo ma sempre vigile, accanto alla culla del nostro piccolo Antonio.
Antonio aveva pochi mesi, i pugnetti stretti, pochi capelli, una testolina tonda perfetta e gli occhi a mezza luna, quasi orientali.
Io e Anna avevamo desiderato tanto questo bambino, lo avevamo cercato, invocato quasi.
Prima che lui arrivasse, noi passavamo le sere a immaginarlo.
Chissà come sarà, ci dicevamo, come camminerà, da chi prenderà il passo: più svelto o più lento.
E le sue mani, come saranno le sue mani? Le sue dita. E il suo viso.
A chi somiglierà?
O non somiglierà a nessuno?
Quella notte dormivamo, quando improvvisamente dalla culla provenne un rumore strano, sordo, rantoloso. Poi il piccolo ebbe un sussulto. Poi un altro. Mi alzai e lo vidi cianotico: Antonio non stava più respirando.
Tutto fu rapido e lento allo stesso tempo, come la scena in un replay, in cui col telecomando vai avanti e indietro.
Arrivammo in pronto soccorso con il bambino inerme, un corpicino di alcun peso, che ci stava giusto giusto nella mia mano. Ero un padre che reggeva e teneva stretta la vita di suo figlio.
Fu una crisi di apnea, ci dissero in ospedale, in seguito ce ne furono un paio d’altre e per un periodo vivemmo nella paura e nell’ansia, poi niente più.
Antonio intanto cresceva con i suoi capelli fini, chiari, che riflettevano la luce e quel taglio d’occhi a mezza luna che ti stordiva.
Tutto sembrava scorrere nella linea regolare del tempo, nello spazio preciso dove erano tutti.
Normalità, era ciò che appariva.
Io ero un operaio, facevo turni pesanti, tornavo dal lavoro con le unghie spesse, annerite, stanco.
Mi sedevo al tavolo di cucina a mangiare una cena riscaldata.
Ma per Antonio la stanchezza veniva dissimulata, confusa, mascherata, tra le costruzioni e i puzzle.
A due anni Antonio era un bambino meraviglioso, con un carattere che io e mia moglie definivamo particolare.
Era irascibile, non accettava che altri bambini salissero prima di lui su uno scivolo, si disperava se le sedioline intorno a un tavolo non erano sistemate come pensava lui.
Cominciava a diventare più aggressivo senza motivo apparente con gli altri bambini.
Scoppiava a piangere inconsolabilmente senza che nulla in realtà fosse accaduto.
Una sera andammo alla festa del paese, era nervoso per il numero di gente attorno a sé e quando le campane iniziarono a suonare, lui crollò in un pianto devastante.
Io e Anna tornammo a casa affranti. Lì cominciai a capire che c’era qualcosa che non andava.
Abbandonai la testa tra le mani perché mi sembrò l’unica cosa da fare.
Se tuo figlio mentre corre cade e si fa male al ginocchio, tu sai perché piange, soffi sulla ferita e gli dici che passerà. E lui magicamente si calma, perché capisce che tu hai capito e si fida di te.
Ma noi non sapevamo cosa gli facesse male, non sapevamo dove soffiare, non sapevamo dove fosse la ferita.
Semplicemente, non capivamo.
Come si può aggiustare qualcosa che non si sa dove sia rotto?
A scuola ci dissero di iniziare un percorso e così facemmo. Lo portammo ovunque, a qualsiasi ora lo mettevamo in macchina e via in tour da un medico all’altro.
Ma Antonio era piccolo. Nessuno di loro seppe darci una vera diagnosi.
Aveva appena 4 anni, mentre giocavamo insieme un pomeriggio e io rimasi sbigottito nel vedere che aveva costruito una piramide al contrario!
Poi però quella piramide cadde e Antonio cominciò a urlare, lanciava oggetti in aria, sembrava che nulla potesse calmarlo. Io non sapevo come consolare mio figlio. Mi sentivo inutile, ed è strano ammetterlo, mi sentivo spaventato da questo bambino meraviglioso che all’improvviso era esploso come una bomba.
Quando infine, da solo si calmò, abbracciandosi le gambe con le braccia e dondolandosi con dolcezza, era tutto paonazzo e sudato, si rimise accanto ai pezzi della piramide, ricostruì il tutto distribuendo il peso delle costruzioni in modo da tenerle in equilibrio perfetto.
Ancora una volta rimasi incantato dall’abilità di mio figlio ma anche terrorizzato dal non capire come gestirlo.
E più cresceva, più cominciavano a verificarsi comportamenti inspiegabili.
Se sua madre gli serviva il polpettone con i piselli verdi e le carote, cominciava a urlare e il piatto volava via. I colori non si potevano mischiare.
I giochi non si potevano mischiare. Le costruzioni dovevano stare in un posto, i giochi per la cucina in un altro, le macchinine in un altro ancora.
Cercava la compagnia dei bambini, ma non riusciva a starci perché il suo modo irruento e personale di vedere le cose non glielo permettevano.
In fila alla cassa poteva prendere e lanciare oggetti ovunque, mettersi ad urlare, piangere disperato.
La nostra vita era devastata. Non potevamo fare le cose che facevano le famiglie normali.
Non potevamo uscire a prendere un gelato.
Antonio mangiava solo il gusto alla nocciola, un giorno in gelateria nel suo cono tutto nocciola c’era una minuscola macchiolina di cioccolato. Mio figlio impazzì e buttò via il gelato.
Non potevamo stare seduti al ristorante, o in un bar, senza che lui si alzasse ogni cinque minuti.
Amavo mio figlio, cambiai vita per lui, smisi di lavorare per seguirlo meglio, niente sembrava funzionare. Quando uscivo con lui ero terrorizzato all’idea di uno dei suoi attacchi per un qualsiasi motivo, o che spingesse un bambino, o che cominciasse a urlare e non la finisse più.
Anna invece si chiuse in se stessa, si allontanò da me, da lui, mise un muro e ci lasciò fuori. Nessuno specialista ci aiutava, tutto finiva quando le porte degli studi medici si chiudevano e noi restavamo soli.
Ero spiazzato dalla vita, come se una bomba ne fosse esplosa all’interno e avesse ridotto tutto in macerie. E cominciai a chiedermi in continuazione, perché a me? Come andremo avanti?
Cosa sarà di Antonio quando sarà più grande? E quando io non ci sarò più, chi si prenderà cura di lui? Chi si assicurerà che i piselli non vengano mischiati con le carote?
Iniziai a non dormire la notte, il mio cuore diventò pesante, il cervello come un giradischi rotto, ruotava sempre sugli stessi pensieri. Ero entrato in un tunnel senza via di uscita. Vedevo in mio figlio tanta di quella vita, così incontrollabile, che non si poteva vivere. Non si poteva vivere, decisi.
Così un giorno lo presi da scuola, lo portai in un bar, gli feci scegliere tutti i dolci che voleva e che puntualmente lasció lì nei piatti, sotto gli occhi di disapprovazione della cameriera.
Che ne sapeva lei che il bambino aveva bisogno di averne esattamente tre, di colori diversi e sistemati in tre piatti differenti, perché era fatto così. Perché così doveva essere.
Antonio era così felice quel giorno. E io ero determinato nel far durare quella sua felicità per sempre. Tenderla, allungarla all’infinito. Lo portai poi a fare una passeggiata, il vento era fresco, gli scompigliava i capelli fini e chiari, sorrideva e saltellava il mio Antonio, stando attentissimo a non uscire dal quadrato delle mattonelle.
Guardammo il tramonto. Quando arrivò il momento di portarlo a letto, la mia idea di far finire tutto era impellente. Volevo mettere fine a questi giri infiniti di medici, tutte queste domande, “Antonio, perché hai fatto questo?”; “Antonio perché hai lanciato il bicchiere?”; “ Antonio, perché sei scoppiato a piangere?”, e le sue solite risposte così desolate, “non lo so papà”.
Tutto questo sarebbe potuto finire finalmente.
Ma lo guardai negli occhi e l’unica cosa che c’era da fare fu abbracciarlo e piangere.
“Papà, perché stai piangendo?”
“Non lo so figliolo”.
Ero un uomo distrutto e proprio in quel momento, quando Antonio aveva circa sei anni, arrivammo a Istituto Santa Chiara che lo prese in carico e mai mi sarei immaginato il ruolo fondamentale che avrebbe avuto nelle nostre vite.
Erano tutte faccette giovani sopra ai camici bianchi, sorrisi quasi adolescenti. La loro giovinezza mi fece paura.
E invece, gli specialisti della Clinica, con pazienza, dedizione, ostinazione, prima di prendersi cura di Antonio, si presero cura di me.
Ad oggi, che so di cosa parlo, posso dire che attraverso il parent training, degli incontri cadenzati tra me e i medici, mi hanno rassembrato per quello che dovevo essere. Per quello che dovevo sapere.
Mi spiegarono i perché dei tanti pianti di Antonio, come i rumori troppo forti, la confusione gli provocavano fastidio per i decibel che non sopportava e l’incapacità di accettare un fallimento, anche nel gioco, gli provoca un profondo stato di frustrazione.
A dieci anni arrivò la diagnosi ufficiale di disturbo dello spettro autistico ad alto funzionamento verbale.
In quel momento non riuscii neanche a leggere, figurarsi pronunciarla.
Ero uno semplice operaio io, il termine autismo era così strano, sentirlo sulla lingua era quasi fastidioso, ruvido.
Ma poi il tempo è galantuomo, ti lascia il tuo di tempo per abituarti e riassestarti a una vita tutta nuova. Una vita a misura di Antonio.
E imparai che mio figlio non era rotto da nessuna parte, non c’era niente da aggiustare.
Antonio era così. Avrebbe sempre lanciato oggetti in aria in un momento di frustrazione, come sarebbe sempre riuscito a comporre un puzzle con una velocità disarmante o fare calcoli a mente come un computer.
Le biglie più luminose sono i talenti di Antonio, le sue capacità più grandi e io avevo il compito di farle scoprire anche a lui.
L’equipe di Istituto Santa Chiara mi ha seguito passo passo. Non ha cambiato la situazione di mio figlio, certo, ma mi ha dato gli strumenti e un nuovo punto di vista.
Quella giovinezza, che tanto mi aveva spaventato all’inizio, è stata la mia salvezza.
Non pensare al futuro, mi dicevano.
E l’ho fatto. Lo sto facendo. Ci sto provando e ci sto riuscendo.
Oggi però Antonio ha 11 anni e sta per finire il ciclo convenzionato con la struttura. Non potremmo mai permetterci i trattamenti a pagamento e siamo devastati al pensiero di doverla abbandonare.
Ci sentiamo già soli, scoperti, troppo esposti alla vita.
Io sono Nicola e Istituto Santa Chiara è stato il mio sostegno, il mio compagno di viaggio in questa splendida, difficile e strampalata avventura con mio figlio Antonio e vorrei che continuasse ad esserlo.
Dovrebbe esserlo.
Deve esserlo.