15 Mag 2023

Storie che curano – la storia di Gingi

di Marzia Casilli


Non come chi sopravvive, ma come chi vive

Attraverso le tendine a finestra riesco a vedere che è ormai quasi l’alba.
L’alba ha qualcosa in più del tramonto. L’alba, soprattutto se violacea, limpida, senza nuvole né foschia, porta con sé la certezza di una buona giornata.
Il tramonto, seppur rosso e sereno, sa solo promettere.
Ma una certezza vale più di una promessa.

Sono attaccata alla macchina del tracciato, il lettino non è molto comodo e ho anche un po’ di freddo. Sento il ciabattoso andirivieni delle infermiere, le loro voci non troppo basse. Sono molto agitata.
È la mia prima figlia.

E me la sono immaginata per tutti questi lunghi nove mesi.
Me la sono vista rannicchiata con i pugnetti chiusi nella sua culla accanto a letto.
Me la sono vista, camminare, venirmi incontro in quei primi passi buffi e incerti dei bambini.
Me la sono vista nelle tutine che mi hanno regalato le mie amiche. Quelle che arrivano fino ai piedini.
Chissà come si muoveranno quei piedini. Chissà dove andranno, dove la porteranno.
Ma la sono vista con il visino somigliante a quello di mio marito.
Perché dicono che le femminucce somiglino al papà.
E allora da lui magari prenderà il mento, il naso, forse gli occhi.
Ma da me prenderà il carattere. La determinazione, spero.
Che di ostinate come me, siamo rimaste in poche.
Sono molto agitata e credo sia normale.

Così ho vissuto la mia gravidanza, tra controlli a tappeto, per assicurarmi che tutto andasse bene e
slanci di positività per farmi coraggio, e paura. Moltissima paura.
È mattina, sono sul tavolo operatorio, pronta per il cesareo programmato. Sta andando tutto bene.
Così nasce la mia bambina, in un silenzio inopportuno, continuano a dirmi che va tutto bene.

È piccola e un po’ sottotono. Ma nulla desta preoccupazione.
Io e mio marito torniamo a casa con Gingi.

Dopo un paio di giorni, notiamo che quando mangia, diventa violacea intorno alle labbra.
Torniamo quindi in ospedale, il mio cuore lo sento battere sui denti per l’agitazione, ci dicono che mentre mangia, poiché sotto sforzo, perde ossigeno.

La mia agitazione diventa preoccupazione. Reale, tangibile, c’è qualcosa. Davvero.
Dobbiamo lasciarla lì in UTIN. Con lei lascio lì un pezzo di me e una durevole carezza per farle
compagnia durante questa notte lunga quanto tutta una vita.
Successivamente entriamo e usciamo dai vari ospedali.
Dagli esami si capisce solo che qualcosa non va ma nessuno sa dirci esattamente cosa.
A otto mesi mettiamo la PEG.
Nel frattempo che aspettiamo, Gingi cresce con una severa ipotonia, molto piccola, non riesce a tenere il capo dritto.
Ci rivolgiamo allora al Gaslini di Genova.
Ci sottopongono a vari controlli e ora rimaniamo in attesa dei risultati.


Tutto succede e allo stesso tempo è come se niente accada.
È tutto veloce, eppure lento.
È tutto incomprensibile, eppure lo comprendo.
È la mia vita irriconoscibile, eppure la conosco.
Nulla mi sorprende, tuttavia, vive dentro di me uno stupore triste.

Intanto Gingi, non aspetta, lei vive, cresce, con i suoi ricci castani, una criniera da leonessa a contornare un viso piccolo, pelle di porcellana, una forza che non ti aspetti e due occhioni, due pozzi cerulei così grandi che a guardarli ci si cade dentro.
Le nostre giornate sono scandite dai suoi orari, il nutrimento, le medicazioni, la fisioterapia.
Tutto ruota intorno alle sue esigenze.

Forse non mi ritengo fortunata, no, eppure un po’ lo sono, perché ad esempio al mio fianco c’è mio marito che non ha mai fatto un passo indietro, né avanti, ma sempre accanto a me.
No non è facile, io non ho i miei anni, sono i miei anni che hanno me, come in ostaggio.
Perché poi impari che sei giovane solo se puoi permettertelo, ed io non posso.

Vivi solo se puoi permettetelo.

E per alcuni la vita si trova dietro a un muro, come direbbe Montale, con sopra dei cocci aguzzi di bottiglia.
Ma qui, dietro questo muro, dove la vita scorre parallelamente alle altre, qui, facciamo più del meglio, più del possibile, più di voi, per non soltanto sopravvivere, ma vivere.

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